domenica 5 aprile 2015

Amici speciali e sensi d'appartenenza

Sono reduce da alcune settimane abbastanza pesanti, un po' per via di alcuni sbattimenti sul lavoro, un po' per problemi di cuore.
I primi si risolvono con un po' di sangue freddo e determinazione, i secondi solo con un po' di tempo...
No, cazzata: ci vuole un sacco di tempo.

Ci sono problemi però a cui non c'è davvero soluzione: due settimane fa ho perso un amico, entrato nella mia vita quasi per caso e destinato a lasciare un piccolo grande segno. Si chiamava Andrea, aveva 18 anni, era un super appassionato di moto e combatteva contro una malattia stronza.
Stronza, sì, perché non ci sono altri aggettivi per descriverla. 
Volevo tornare a trovarlo dopo il Gran Premio del Qatar, per portargli la nuova divisa del team a cui teneva tanto... E invece, purtroppo, la stronza mi ha battuto sul tempo, e se l'è portato via.

Potrei fare tanti discorsi adesso: potrei dire che la vita è ingiusta.
Potrei dire che dovremmo smettere tutti di lamentarci per le piccolezze, e iniziare a gioire per quanto di bello abbiamo intorno, quotidianamente.
Potrei dire che non voglio più essere triste o preoccupata, perché non essere felici è solo una perdita di tempo.

Potrei dire tutte queste cose, e le penso davvero, ma vorrei soprattutto mettere per iscritto un pensiero che mi gira in testa da un po', che forse solo ora sono riuscita a mettere a fuoco con chiarezza.

Capita spesso, più o meno inconsciamente, di dividere il mondo che ci circonda in due macro categorie: quello che ci piace, e quello che non ci piace. Ci capita con tutto: posti, attività, oggetti, persone.
A me piace il mare e piace il rugby.
A te piace arrampicare e piace New York.

In realtà, ripensandoci bene, il concetto di piacere forse risiede in qualcosa di più profondo: in un certo senso, una cosa che mi piace "mi appartiene". Me la sento addosso, come se fosse naturalmente "mia".
Viceversa, una cosa che non mi fa sentire in questo modo, mi sarà indifferente o, addirittura, non mi piacerà.

Mi è capitato con il mio lavoro: la prima volta che sono entrata in un Paddock (ed ero ad un piccolo evento come semplice spettatrice, niente di che), ho provato proprio quella sensazione lì. Sentivo che tutto quel mondo fatto di motori, rumori, team, box, uniformi, tempi, sponsor, mi apparteneva. Ho sentito, irrazionalmente e visceralmente, che quello era il mio posto. 
Cosa c'entrava tutto ciò con la mia maturità classica e la mia Laurea in Lettere? Assolutamente nulla, ma il mio "senso di appartenenza" mi conduceva lì: quindi ho messo un punto a quella che era stata la mia idea di vita fino ad allora, ho cambiato pagina e ho fatto quello che ritenevo opportuno per assecondare questo impulso. 
Ora, a distanza di 4 o 5 anni, so di aver fatto la cosa giusta e di essere nel posto migliore per me.

Mi capita con il mare, sempre: io lo so che è solo una grande distesa d'acqua, ma oh, anche il solo vederlo da lontano mi fa stare bene. "Mi appartiene". Perché? non lo so spiegare, ma succede così e basta. 

Mi sono infine resa conto che mi succede anche con le persone.
Ci sono persone che davvero diventano "mie", me le sento vicine, me le sento sotto la pelle. E non importa che ci abbia passato insieme una giornata o una vita intera: io le sento. Mi entrano nel cuore, e lì restano, nonostante a volte subentri la distanza, il non sentirsi, il vedersi poco.
Sono persone a cui mi riesco a mostrare per come sono davvero, senza sovrastrutture, senza il desiderio stupido di dover dimostrare qualcosa o di dover piacere per forza. Proprio perché sento che mi appartengono, mi sento libera di donare la parte più vera di me.

Purtroppo tante volte accade anche il contrario: ci sono persone che proprio no, non riescono ad oltrepassare quel sottile velo impermeabile che esiste talvolta tra gli esseri umani. Magari ci passo accanto ore, giorni, anni, ci rido, ci scherzo, ci passo dei bei momenti, magari mi ci confido anche... Ma intimamente so che comunque non mi appartengono e non mi apparterranno mai, per quanto mi possa sforzare. Non per colpa loro, né per colpa mia.

"Non sei stato mio e mai mio sarai, tra questa gente", dice una canzone che sto ascoltando spesso in questi giorni.

Ecco, Andrea col suo modo buffo di fare, la sua passione sfegatata, i suoi occhi pieni di entusiasmo, mi apparteneva. E mi appartiene.
Ciao Andre: ricordati che dobbiamo fare ancora una cosa insieme, io e te... E' solo rimandata.

domenica 16 novembre 2014

Non fiori ma biglietti di concerti

Sto diventando vecchia.
Me ne accorgo da tante piccole cose nella mia vita quotidiana: i primi mal di schiena, le prime rughette sul viso, i primi stress da "mondo reale", il lavoro, le tasse da pagare, il tempo che sembra non bastare mai...


Insomma, non sono più un'adolescente: mi duole ammetterlo, ma è così. Non lo accetto (non lo accetterò MAI!) ma la carta d'identità parla chiaro, poche palle.

So' 27, signorì!


Le mie passioni e i miei interessi, a onor del vero, sono mutati poco negli anni, nonostante la mia (presunta) maturità: uno di questi sono i concerti. 

Sarà che sono stonata come una campana, sarà che non so suonare neanche il citofono, ma io rimango quasi ipnotizzata di fronte a qualcuno che sappia suonare e cantare come Dio comanda (probabilmente è questa stessa legge del contrappasso che mi fa rimanere affascinata quando incontro persone con una buona parlantina e carisma... Ma questa è un'altra storia.)


Insomma: volete farmi contenta un sabato sera? Portatemi a un bel concerto e mettetemi una birra media in mano. 

Stop, non chiedo altro. 
Anzi, no, magari un'altra birra... 
Comunque, negli ultimi anni, insieme alla mia migliore amica nonché inseparabile compagna di groupietudine, ho "portato a casa" un discreto numero di concerti, di tutti i tipi: dalla band semi-sconosciuta alla festa dell'Unità di Casaldisperso di Sotto, al gruppo fighetto che passa in radio un'ora si e una no.


Un'unica costante: il parterre in piedi. 

Si, perché i "concerti con le sedie" sono brutti come la birra analcolica: se devi fare una cosa, la fai per bene, diamine! Se vuoi stare comodo ti compri il DVD del live e te lo guardi dal divano. O vai all'Opera.
(Che poi, perdonatemi la divagazione: in autostrada, qualsiasi viaggio io stia facendo, becco sempre i camion della Drive Beer alcool-free, quelli col faccione di Fisichella sulla fiancata. Avete presente? Ora, voi avete mai comprato una Drive Beer? L'avete mai bevuta? L'avete mai almeno vista in un supermercato? Nessuno mi dissuaderà mai dal credere che quei camion in realtà trasportino clandestini o rifiuti tossici. Mi aspetto un servizio shock di Report a breve. Poi non dite che non ve l'avevo detto.)


Comunque sia, dicevamo: i concerti nel parterre, in mezzo alla folla, sotto il palco.

Ormai sono esperta, e dall'alto (o dal basso?!) del mio metro e 72 mi sento in dovere di condividere con voi alcune fondamentali riflessioni, in ordine rigorosamente sparso e sconnesso.



La sbatta del "cosa mi metto"

E non mi rivolgo solo al gentil sesso: d'estate é facile, fa caldo, la maggior parte dei concerti sono all'aperto... Ma d'inverno?? Come la mettiamo con i concerti al chiuso? Lo scenario tipico è: fuori dal palazzetto la bufera siberiana, dentro 80 gradi e un'umidità del 700%. 
Il problema reale non è tanto "cosa mi metto", ma "dove metto la giacca quando il mio corpo starà per raggiungere la temperatura di fusione del tungsteno?".
Quand'ero giovane, incosciente e con gli anticorpi grossi come gatti, potevo anche permettermi di lasciare il cappotto in macchina, correre fino all'ingresso in maglietta e felpa e saltellare beata e felice per tutta la durata del concerto. Se lo facessi adesso, morirei di broncopolmonite fulminante tra spasmi atroci ancor prima di uscire dal parcheggio.
La mia tattica, ormai collaudata, è quella di non vestirsi a strati (+ strati = + roba da tenere in mano = che cojoni), ma mettersi una sola giacca calda e "rovinabile", da incastrare poi scaltramente nella tracolla della borsa, per avere le mani libere di reggere tutte le birrette che volete. 


I video col cellulare

Io VE LI BUCO 'sti cazzo di cellulari! 
Io sono figlia dei social network tanto quanto voi, sono Instagram-dipendente e come stalko le persone su Facebook io nessuno mai.... Però: io capisco perfettamente il fatto di fare 15 secondi di video da condividere su Twitter per far rosicare gli amici, ma riprendere tutto il concerto anche no. 
Punto 1: coi telefoni in alto sopra la testa coprite la visuale a chi vi sta vicino;
Punto 2: spiegatemi il senso di guardare il concerto attraverso lo schermo del vostro smartphone, quando invece potreste creare quella cosa che si chiama "contatto visivo" con il cantante/band per cui avete speso anche dei soldini;
Punto 3: parliamoci chiaro, quante volte andrete a rivedervi 2 ore di video ripreso da lontano, mosso e con un audio da film sovietico degli anni '50 sullo schermo dell'iPhone? Ecco.





I fattoni
Non importa a che concerto io sia, loro li trovo sempre. Sta ancora suonando la band spalla, e loro si stanno già rollando la seconda canna, totalmente incuranti di ciò che sta accadendo sul palco. A volte sono molesti, a volte sono perfino teneri... e un po' imbecilli, aggiungerei: se tenti di farti su una canna in mezzo al pogo, poi non fare la faccina triste se ti arriva una gomitata e ti casca tutto per terra. 
Il peggio del peggio però sono "gli amiconi", mediamente 18-20enni, che si offendono se ti offrono di bere del rum e coca homemade dalla loro bottiglia di plastica e tu, chissà perché, rifiuti. 


Altre categorie umane degne di nota

E qua, veramente, c'è di tutto: il supergiovane 50enne visibilmente fuori luogo che balla come un ossesso, le ragazzine sovreccitate al loro primo live, il fidanzato scoglionato che è lì solo per far contenta la morosa (sperando oltretutto di andare in camporella come ricompensa lungo la strada del ritorno) e viceversa (lei, diabolica, in questo caso ha scritto in faccia "si si, bravo, io ti accompagno a sentire 'sti quattro rockettari sfigati, però tu domani mi porti da Zara... e ho intenzione di provarmi TUTTO").
C'è sempre quello che cerca l'amico disperso e lo chiama al telefono ("oh sono qui davanti al palco, sto alzando il braccio!" Bravo pirla, siamo in 2000 qua dentro con le braccia alzate...), la stronza (perché di stronza trattasi) che si fa prendere sulle spalle, quello che non si lava dal '92, quello che cerca di pogare sempre e comunque (ma siamo al concerto dei Bastille, ma perché?!).
E poi c'è quello alto 2 metri e largo 1. Lo trovate facilmente: si piazza sempre davanti a me, non potete sbagliare.


Gli eroi

Una menzione a parte va a loro, i veri eroi moderni: in primis, le ragazze alte un metro e 50 o anche meno, che non vedono niente, prendono delle gran gomitate ma nonostante tutto, sono lì. Amiche, avete tutta la mia stima.
In secondo luogo, bisognerebbe dare una medaglia (e una serie di free drink) a quei martiri coraggiosi e rassegnati che sono i padri-accompagnatori-di-figlia-adolescente-con-seguito-di-amiche. 
(Vi starete chiedendo: ma a che razza di concerti vai, che ci sono anche le sbarbine 15enni? Eh che vi devo dire, 'ste ragazze d'oggi sono un po' sceme ma ascoltano bella musica....)
Comunque, inutile dire che a casa mia un'ipotesi del genere non era nemmeno immaginabile: "Dov'è che vuoi andare? Al concerto dei Green Day? Ti dovrei accompagnare fino a San Siro? E vorresti anche che venissi a prenderti alle due? AHAHAHAHAHA Non diciamo cazzate per cortesia... E vai a letto che sono già le 10 e mezza!"


Comunque, in tutto ciò, dopo anni di pratica, io ancora un dubbio ce l'ho: come faccio ad applaudire con il bicchiere della birra in mano?!

venerdì 14 febbraio 2014

San Valentino (che poi anagrammato sarebbe "'Na sveltina, no?")

"Cosa fai a San Valentino?" mi chiedono dalla regia.

'Na fava, come al solito!

Non lo festeggiavo quando ero fidanzata, figurarsi se lo faccio ora che sono una simpatica zitellina (e contenta di esserlo, per il momento).

Alla fine, a pensarci bene, S. Valentino non è la festa dell'amore, e nemmeno la festa degli innamorati. Non è neppure una festa-consumistica-creata-apposta-per-vendere-più-cioccolata-fiori-gadget-di-dubbio-gusto-biancheria-made-in-china-100%-sintetica.

No: è una festa pensata apposta per infierire su chi è single. 
O "non accoppiato". O "sarei accoppiato ma è una situazione talmente di merda che lasciatemi stare e passatemi la vodka".

E' un complotto. 
Pensateci: a S. Valentino chi è amato non si sente "più amato", mentre chi è solo si sente decisamente "più solo".
Anzi, viene portato a sentirsi "solo".

E si crea lo stereotipo per cui la coppia deve fare per forza eclatanti gesti d'amore, mentre il single starà sicuramente a casa ad abbracciare il cuscino, frignando e passando mentalmente in rassegna tutte le proprie storie sentimentali fallite, dal biondino della terza elementare in poi. O peggio, andando a quelle serate "anti-San Valentino" che sono la tristezza fatta evento.

Ma dobbiamo sottostare a questa cosa? 
Dobbiamo progettare di suicidarci bevendo dell'acetone perchè stasera nessuno ci comprerà le rose dal cingalese al semaforo? 
Dobbiamo esaurire scorte di fazzoletti davanti a "Le pagine della nostra vita", più di quanto facciamo di solito? (Che poi diciamocelo, Ryan Gosling è ben più figo in "Drive", fatevene una ragione!) 
Dobbiamo metterci il pigiamone antisesso e mangiare il gelato Hagen Daaz direttamente dal barattolo? E se volessi delle bruschette col patè di carciofi e del lardo di colonnata? Come la mettiamo? Valgono lo stesso?

Basta con 'ste menate da film: è semplicemente un venerdì come gli altri, con l'unica differenza che è meglio non uscire a cena perchè i ristoranti sono quasi tutti pieni (causa le coppiette di cui sopra).

Anzi no, facciamolo valere 'sto 14 febbraio: usiamolo come come scusa per uscire con gli amici al grido di "TGIF" e imbottirci di alc... ehm... Cioccolata, volevo dire cioccolata!





domenica 22 dicembre 2013

Paris makes me happy

Io, in genere, sono una persona abbastanza razionale. Ci sono cose, però, che non riesco a spiegarmi, nonostante mi interroghi spesso sul loro significato.
Un esempio su tutti: il mio amore per Parigi.

E pensare che io non sono QUEL tipo di ragazza. 
Non lancio urletti di gioia di fronte ad una confezione di macarons, non ho il santino di Coco Chanel nel portafogli, non passo ore in stato di estasi di fronte alle vetrine di Louis Vuitton e ancora non mi sono fatta una ragione del fatto che i francesi non usino il bidet.

Eppure...
Io quando sono a Parigi sono felice.
Non so quale strana sostanza spargano nell'aria, o quale tipo di ingrediente segreto mettano nei croissant che mangio la mattina: fatto sta che mi pervade uno strano e ingiustificato senso di benessere, che proprio non saprei descrivere.
Nonostante il freddo, il vento, i piedi doloranti dopo una giornata di marce forzate da un monumento all'altro e la proverbiale "simpatia" dei parigini, io STO BENE.

Onestamente non so se ci vivrei, non mi sono mai posta il problema, ma ci sono tanti piccoli elementi di questa città che amo, tanti piccoli dettagli sommati uno all'altro: i palazzi ordinati del centro, con le case che terminano in angoli sempre più stretti man mano che ci si avvicina all'incrocio delle strade, le vetrine dei caffè, le stazioni della metropolitana rivestite di piastrelle bianche, come il vecchio bagno di mia zia, i musei in cui vorrei perdermi, quelle zuppe buonissime che dio solo sa cosa ci mettono dentro. 
Mi piace il fatto di poter trovare il faccione di Salvador Dalì che mi intima di fare silenzio, così, su un vecchio muro; mi piace andare ai giardini delle Tuileries, sedermi di fronte all'enorme vasca della fontana e guardare i passanti; mi piace soprattutto il modo in cui i parigini sanno essere padroni della propria città, la naturalezza con cui, dopo il lavoro, comprano una bottiglia di vino e vanno a fare un aperitivo su una panchina sul lungosenna, o i pic nic improvvisati della pausa pranzo, in qualche parco.

Forse Parigi mi piace tanto per via dei ricordi che evoca nella mia mente, come la storica gita di classe in quinta superiore, o un abbraccio silenzioso nei cortili del Louvre, in una fredda notte di marzo di qualche anno fa.

O forse, ripensandoci, mi piace semplicemente perché è una città che incita a sognare: alla fine, volenti o  nolenti, siamo tutte un po' Amelie.





sabato 2 novembre 2013

Halloween, film e cinema di provincia

Halloween: anche quest'anno ce lo siamo levato dalle palle.
OH!
Non nutro un grande amore per questa festività. Anzi, ad essere onesta non la sopporto proprio, così come non sopporto le ricorrenze in cui "bisogna divertirsi per forza": Capodanno, Carnevale, Ferragosto... A me mettono ansia. 
O meglio, mi mette ansia quest'ossessione del doversi per forza "disfare", del dover fare qualcosa di eccezionale solo perché la data sul calendario lo richiede. 
Uscire di casa già con l'idea del "DEVO divertirmi tantissimo" (che tradotto nel linguaggio del ventenne medio significa "DEVO ubriacarmi e tornare a casa conciato nammerda"): secondo me è l'aspettativa che rovina tutto. O almeno, nel mio caso è così.

Le serate più divertenti della mia vita sono iniziate in modo assolutamente tranquillo: nessuno aveva fatto grandi progetti, non ci aspettava nulla... E invece sono quelle che ricorderò per sempre, quelle a cui ripenserò quando sarò una vecchia babbiona, quelle che mi strappano un sorriso al solo nominarle. 
Quelle sere lì insomma.
Ecco, magari non ricordo proprio tutto-tutto... Però d'altra parte è proprio questa memoria "a macchie" che mi fa pensare che siano state proprio delle gran serate!

Insomma, non mi piace la pressione del "divertimento a tutti i costi", non mi piace l'idea di farmi fregare un sacco di soldi per entrare in un locale che di norma costerebbe la metà, non mi piacciono i drink a 15 € e soprattutto non mi piacciono i resoconti etilici dei giorni seguenti, sbandierati su Facebook come se fossero grandi gesta eroiche: a me, della vostra progressione alcoolica prosecco-Montenegro-vodka liscia-acqua ragia non me ne può fregare di meno.

(Ok, lo confesso: in realtà il mio odio per Halloween deriva dal fatto che l'ultima volta che sono andata ad una festa avevo un travestimento BELLISSIMO da Rambo -si, Rambo: cazzo ridete?!-, ma nessuno mi si filava perché erano tutti impegnati a sbavare per le porno-zombie, porno-gatte, porno-streghe. Ecco.)

Fatta questa debita premessa, vi racconto come ho passato la serata del 31 ottobre.
Dopo una settimana di peste bubbonica, in cui non ho letteralmente messo il naso fuori di casa, ho deciso che forse era il caso di vedere se l'umanità, all'infuori del mio appartamento impestato dall'influenza, esistesse ancora. 
Sento la mia migliore amica: "cosa fai, cosa non fai,...", e viene fuori che una coppia di nostri amici l'ha invitata al cinema a vedere un film serbo, The Parade.

Una commedia SERBA. 
Al cinema di Seregno.
SOTTOTITOLATA.

"Vuoi venire?"

Io quando sento parlare di Balcani mi emoziono a prescindere (ve l'ho FORSE già detto duecento volte, ma io in Bosnia ci ho veramente lasciato un pezzo di cuore): il tempo di darmi un tono e una mano compatta di fondotinta per mascherare il colorito da zombie (ad Halloween: ironico, no?) ed ero già in macchina.

Immaginatevi uno di quei cinema di provincia, quelli in cui io e i miei coetanei andavamo alle medie il sabato pomeriggio, prima che i multisala li costringessero quasi tutti alla chiusura. Quelli con le file di sedie strettissime, con le sedute che si aprono e i tendoni di velluto pesante all'ingresso. Quelli in cui varchi l'ingresso e la mente va subito a Nuovo cinema Paradiso

Insomma, inizia il film, e dopo 10 minuti ho già capito che è bellissimo. Sono anche esaltata perché riesco a capire qualche parola in serbo (quasi tutte parolacce, ça va sans dire..), ma questa è un'altra storia.




The Parade è una commedia in cui si mescolano risate e riflessioni, in cui si parla con ironia di omofobia, di diritti civili, di multiculturalismo in un'area dell'Europa che ancora sta affrontando l'eredità lasciata dalla guerra. Divertente (molto!), commovente (sul finale), è impossibile non volere del bene a questi personaggi, tanto strani ma anche tanto simili a noi.

Io sono pessima nel raccontare i film  e il trailer non rende assolutamente giustizia: fidatevi e andate a vederlo, se lo trovate.


Ed eccoci giunti al tasto dolente di tutto ciò: se lo trovate.

Già, perché se non hanno speso due lire per doppiare questo film (che oltretutto ha vinto premi al Festival di Berlino), dubito che le abbiano spese per distribuirlo.
Mentre dell'ultimo film di Checco Zalone sono state distribuite 1200 pellicole solo in Italia, di questo e di molti altri non si è praticamente sentito parlare. 

1200 pellicole sono un'enormità. Vuol dire che questo film è ovunque, in ogni cinema, da Aosta ad Aiello Calabro.
Non sto sindacando sul fatto che i film di Zalone siano o meno belli (i primi due li ho visti e qualche risata me la sono fatta anche io): sono solo preoccupata per la sempre minore mancanza di alternative che vengono lasciate allo spettatore. 

E lo so che il cinema è in crisi, che non ci sono soldi, che scarseggiano le idee, e bla bla bla... Ma perché nessuno guarda un po' più in là del proprio naso e vede che ci sono film stranieri ben fatti (come The Parade, per esempio) che meriterebbero un po' di attenzione? 
Tralasciando il cinema d'autore e pensando solo alle pellicole d'intrattenimento, mi chiedo: perché devo essere costretta a scegliere tra i blockbuster americani pieni di effetti speciali e le solite commedie italiane che, francamente, hanno un po' rotto le palle? Cosa vi costa acquistare un bel film prodotto in Serbia e Slovenia, doppiarlo e distribuirlo in qualche multisala? Se anche proiettate la quindicesima puntata di The Avengers in 4 sale anziché 5 non muore mica nessuno...

Io voglio poter SCEGLIERE
E soprattutto, odio le imposizioni.

Non me ne frega nulla delle strategie di marketing a tappeto, dei trailer ogni 5 minuti, delle interviste su tutti i giornali nazionali: non andrò mai a vedere un film solo perché me lo impongono dall'alto o perché in giro trovo solo quello.

Idem in libreria: potete riempire tutti gli scaffali con l'ultimo libro di Fabio Volo, potete anche tappezzarci le pareti del bagno, al posto delle piastrelle. Non mi interessa, io non lo compro. O meglio, lo comprerò se e solo se deciderò IO di comprarlo, perché mi va di leggerlo. Altrimenti, continuerò a chiedere libri "strani" e continuerò anche a fare la scocciata quando mi direte che lo dovete ordinare in casa editrice, perché avete dovuto svuotare il magazzino per far spazio a qualche altro best-seller dal successo assicurato.

E il problema non è Volo (che, a parte gli insegnamenti di vita da Bacio Perugina, non scrive neanche malaccio, ad essere sincera), o qualsiasi altro scrittore da primo posto in classifica: il problema è che ormai non si investe più, non si sperimenta, non si rischia. I libri degli scrittori X, Y, Z vendono? Perfetto, allora focalizziamo la maggior parte dei nostri sforzi solo ed unicamente su di loro, e vendiamo solo i libri di X, Y, Z, mettendo il nome bello in grande sulla copertina. Il lettore "raffinato" (o lo spettatore, per ritornare al discorso del cinema) continuerà a cercare altro, ma il lettore-spettatore "semplice", per quanto curioso e coraggioso possa essere, non starà nemmeno ad interrogarsi sulle possibili alternative che ha, visto che praticamente gli vengono tenute nascoste.

Mi sto rendendo conto del fatto che ormai la cultura "media" (che è quella di cui mi nutro io, lontana dagli intellettualismi estremi ma un filino più elevata della lettura di Novella 2000) sta assomigliando sempre di più alla "filosofia iPhone". Non più tanti prodotti diversi per tanti target di pubblico (diversificati per età, sesso, gusti, livello d'istruzione, ecc.) ma un solo prodotto (l'iPhone, appunto) per tutti: non ti piace? Amen, vedi di fartelo andar bene perché c'è solo quello.
E l'iPhone è un esempio positivo, perché è un prodotto funzionale, facile da usare, che effettivamente va bene per tutti. Ma questo discorso può valere per la cultura? Per un romanzo? Per un film?

Finirà come in quei film catastrofici, in cui leggeremo tutti lo stesso libro, guarderemo tutti gli stessi film, ci vestiremo tutti allo stesso modo, avremo tutti gli stessi comportamenti standardizzati imposti dall'alto? Spero di no.

Io continuo a fare la rompiscatole infantile: più mi dicono di fare una cosa, meno mi vien voglia di farla. 
Più mi bombardano con la pubblicità di un film, meno mi vien voglia di vederlo. 
Più mi dicono che un libro è "il caso letterario dell'anno", e più ne sto alla larga. 
Poi magari non escludo che lo leggerò tra 2 o 3 anni, quando nessuno ne parlerà più, perché avrò deciso che mi va. 

Fino ad allora, le 50 sfumature di grigio tenetevele per voi. 
E anche il travestimento da porno-mummia di Halloween.



mercoledì 8 maggio 2013

Inquietudini metropolitane

Migliaia di anni di evoluzione della specie non sono serviti a niente. NIENTE.
L'essere umano è fondamentalmente stupido.
Punto.
Non c'è nulla da fare, non ci sono lauree, programmi educativi, letture formative che possano risolvere la situazione, niente!
E sapete come sono giunta a questa conclusione?
No, non guardando lo spettacolo ridicolo che si è consumato nelle Camere le scorse settimane.
No, non compiendo uno studio di antopo-socio-sarcazzocosa-psicologia.
No, nemmeno leggendo gli sproloqui dei casi umani che popolano il fantabuloso mondo del web.
No.

Mi basta prendere la metropolitana.

Ogni giorno, andata e ritorno, da più di sei anni a questa parte.

Minchia. C'è veramente da perdere la fiducia nel genere umano. Va bene che discendiamo dalle scimmie, ma non è un alibi valido: anzi, forse forse i primati sono meglio di noi.

Partiamo dalle basi. Problemino di logica da primo anno di asilo: Pierino ha un vaso pieno di caramelle rosse, ma vuole riempirlo di caramelle gialle ( ndr: io a dirla tutta 'sto Pierino che faceva la superstar di tutti i problemi di matematica non l'ho mai sopportato tanto... Cioè, ma smettila di fare la primadonna, sempre in mezzo stai... Ma non ce l'hai una vita tua? E poi mangi sempre, ma la finisci?? Poi ci lamentiamo che i bambini diventano obesi... Pierino demmerda, è tutta colpa tua!). 

Torniamo a noi, dicevo: Cosa deve fare quel ciccione di Pierino?
Risposta: PRIMA togliere le caramelle rosse dal vaso e DOPO riempirlo con quelle gialle.
Ci siamo?
Mi seguite?
Facile, no?


E INVECE NO, EVIDENTEMENTE NON è FACILE PER UNA CIPPA!!!

Ma io mi chiedo: se ci arrivate con le caramelle, PERCHè DIAVOLO NON CI ARRIVATE CON DEI CORPI UMANI IN UN VAGONE DELLA METRO?? PERCHè?? EH?? PERCHè??
Perchè la gente nel 2013 ancora non ha capito che PRIMA fai scendere dal treno e POI, una volta che si è svuotato, puoi salire???

Sto esagerando? Forse. Ma alla centesima volta che ti si para davanti alla porta della metro un branco compatto di gente che vuole salire a tutti i costi prima che tu riesca a scendere... Beh, ti vien voglia di avanzare tra la folla roteando una roncola. Arrugginita.

Oppure: gente che corre a perdifiato in mezzo alla folla, travolgendo bambini, anziani, invalidi, stagiste-sfigate-come-la-sottoscritta pur di prendere il treno al volo. Gente che si improvvisa la Fiona May de noantri, batte tutti i record di salto in lungo dalla banchina e si lancia di testa dentro il vagone mentre le porte automatiche si stanno già chiudendo. Gente che si stipa volontariamente in un treno già strapieno in cui la temperatura dell'aria oscilla tra gli 80 e 100 gradi ed impera l'olezzo di ascella-misto cipolle-misto sudore-misto stalla.

Carissimi, vi svelo il quarto segreto di Fatima: passa un'altra metro tra un minuto e mezzo, state sereni per l'amor d'Iddio.

Perchè io non ci credo che siete tutti pendolari e dovete tutti prendere l'ultimo treno della giornata pena il pernottamento in stazione Centrale coi barboni. 
Ecco. 



P.s. per i miei 25 lettori (e sono ottimista): mi hanno fatto notare che i link ai vecchi post non funzionano più, ma anche voi, ammmisci, state sereni! Ho solo cambiato l'indirizzo del blog, che non è più lazabettabonetti.blogspot.com ma la-zabetta.blogspot.com.
I miei sproloqui ci sono ancora tutti. Purtroppo.







mercoledì 17 aprile 2013

Fighedomani

Nuntio vobis, magno cum gaudio, che è giunto il momento: come ogni santissimo anno, a cadenza regolare, da oggi anche per me la parola d'ordine è una e una sola. Anzi, due.

PROVA COSTUME.

Taaa daaaa!!! (Sarebbe auspicabile leggere le prossime 3 righe con tono grave e con QUESTA colonna sonora...)
La Morte Nera.
La Nemica per eccellenza.
La Madre di tutti mali del mondo.

Quest'anno la temo più del solito, visto che nei miei mesi trevigiani ho messo su un po' di zavorra... (A mia discolpa posso dire che lo spritz costa in media 2,50 euro, se ne bevi meno di tre è un affronto...)

Ma non temete, non tutto è perduto: ho ancora due mesi e mezzo. Dieci settimane. Settanta giorni. CE LA POSSO FARE! 
Noi (io e la mia cellulite) ci crediamo. Ci crediamo un sacco.
Da lunedì anche io mi sono idealmente unita alle FIGHEDOMANI, gruppo di sostegno nato tra blogger "serie" (mica sfigatelle come me) che si sono imposte di darsi un tono ed arrivare pronte all'estate. Mangiare sano, bere un sacco (di acqua...) e soprattutto tanta, tanta attività fisica. 
Non farò miracoli, non avrò mai il fisico di Gisele e non rientrerò in quello stramaledetto tubino della laurea triennale, ma almeno posso aspirare a recuperare un minimo di tono... Obbiettivo: tornare ai fasti dell'estate 2011, con un paio di kg in meno, qualche muscolo in più e la sicurezza di non incorrere in una embolia polmonare ogni qualvolta faccio le scale un po' di corsa... (Ironia della sorte: quella, in tutta la mia vita, è stata l'estate in cui ho passato meno giorni in costume da bagno... Mapporc...)

Lunedì, dicevo, carica di buoni propositi e belle speranze, galvanizzata dal caldo e dal sole, ho dato il via alla prima uscita stagionale in bici: gioia e giubilo! Sono andata al mio adorato Parco Nord e ho iniziato a pedalare, pedalare, pedalare... 

Io ADORO andare al parco in bici... Lo faccio spesso, come raccontavo in un un vecchio post. In questo periodo dell'anno, inoltre, la fauna che lo popola tra le 6 e le 8 di sera è fantastica: ci si potrebbe scrivere un trattato di sociologia.
Ci sono i runners indefessi, quelli che d'inverno si alzano alle 5 di mattina per allenarsi prima di andare al lavoro (sì, lo fanno davvero, non è fantascienza: se non ne avessi uno in casa non ci crederei nemmeno io...), ci sono i  ciclisti con tutina, caschetto e bici da corsa (ma per andare al Parco Nord?? Maccelaffai??), ci sono i super palestrati (che si impossessano degli attrezzi del percorso vita per ore, ore e ore e dispensano consigli da personal trainer - assolutamente NON richiesti - a chiunque passi nel raggio di 100 metri), ed infine ci sono i cialtroni. Come me. Ma anche peggio.
Io, con la mia mountan bike scassata, i miei vestiti "100% inchiavabilità" e la musica sparata a tuono nelle orecchie, ho ancora una dignità... Ma loro... LORO...
Gente che corre con le Converse, cinquantenni che riesumano i rollerblade di Hello Kitty dallo scatolone dei giochi dei figli, uomini di mezza età che giacciono sfiniti in mezzo ad un prato invocando la bombola dell'ossigeno...
I miei preferiti, a onor del vero, sono i SuperSeri. Io li guarderei per ore... Dicasi SuperSerio (o anche TipoCheSeLaCrede) quell'affascinante essere umano che, anche per farsi una corsetta ad minchiam, ha un programma dettagliatissimo di allenamento; il vero S.S., the one and the only, si prende le pulsazioni ogni 10 minuti, calcola in un nano secondo il proprio dispendio energetico della giornata, sa perfettamente quante calorie ha ingerito a colazione, pranzo e alla festa di cresima del nipote della settimana prima, è abbonato a tutte le riviste di running del globo terracqueo, passa le nottate davanti al pc a vedere le repliche delle maratone di New York.... ma poi, per fare il tragitto casa-parco, prende la macchina. Oh yes.
Comunque, nel mio piccolo, anche io ho un programma d'allenamento: si chiama Pedala finché ce n'è ma quando inizi a vedere la Madonna magari fermati. NB: le divinità minori non valgono per cui non fare la furba e continua a pedalare, CHIATTONA!.
Funziona. 
Magari lo brevetto...